L'abito non fa l'assassino
La seconda indagine di Guerino Manforte


Quella sera Egidio Di Stefano si trattenne molto più del dovuto.

Allontanandosi dall’edificio abbandonato, si voltò un istante ed ebbe la sensazione che Villa Savoldelli lo stesse scrutando, un gigante scuro immerso nel buio del tramonto inoltrato.

La foresta gli sussurrava rumori di ogni tipo; alcuni rassicuranti e consueti, come il canto di qualche uccello notturno, altri desueti e sinistri.

L’ex ricercatore di antropologia sospettò di aver atteso troppo prima di decidersi a tornare in paese, permettendo al muro dell’oscurità di calare giù; in un paio di minuti avrebbe raggiunto l’automobile ferma in un piccolo piazzale sterrato, l’ultima frontiera percorribile con un mezzo prima che la vegetazione prendesse il sopravvento. Si impose di mantenere i nervi saldi e non cedere alla suggestione; non era la prima volta che ignorava lo scorrere del tempo perdendosi nei suoi pensieri. Per quanto incantevoli fossero quei luoghi, dopo il crepuscolo mettevano i brividi ma era cosciente che si trattava pur sempre di sensazioni irrazionali, accentuate dalle dicerie che la gente del posto continuava ad alimentare da almeno tre decenni, da quando uno dei rampolli della famiglia Savoldelli, l’avvocato Piergiorgio, era sparito in circostanze misteriose e di lui non si era saputo più nulla.

Nel momento in cui calò un silenzio improvviso, Di Stefano udì il respiro farsi pesante; non era così mal ridotto da giustificare quell’affanno e ammise a sé stesso di provare paura.

Un fruscio proveniente da una distanza indefinita alle sue spalle, più intenso e prolungato del solito, gli fece arrestare il passo. Si voltò; Villa Savoldelli era sparita dietro un muro di alberi e colori sempre più indistinti. Sobbalzò quando intravide un’ombra tagliare in due il bosco per dissolversi in lontananza.

“Santissimo intelletto!” sussurrò, “mi sto davvero rintronando”.

Smise di lottare contro la suggestione e le sue gambe iniziarono a macinare passi con velocità crescente; poche decine di metri lo separavano dal parcheggio ma quello che accadde lo lasciò senza fiato.

Il buio fu squarciato da un grido roco, disumano, che trafisse i suoi sensi tramutandolo in una statua di sale, mentre gli occhiali presero a scivolargli sul naso madido di sudore. Per alcuni istanti i rumori si attenuarono e la natura parve trattenere il fiato di fronte il pericolo che strisciava come un rettile velenoso, irrequieto e distante ma vivido al punto da sembrare corporeo.

Per quanto tempo rimase immobile? Non avrebbe saputo dirlo con precisione ma ciò che fece dopo, quello sì, lo avrebbe ricordato, perché stupì anche lui.

Il sapore della scoperta conduce l’uomo a roboanti imprese, ma anche alla totale compromissione.

Gli tornarono in mente le parole che un paio di mesi prima aveva pronunciato discorrendo con Guerino Manforte, il nuovo arrivato a Roccabuona, col quale aveva stretto subito rapporti cordiali. Lasciò da parte l’aspetto filosofico e si mosse nella direzione dalla quale era giunto quell’urlo. Ignorava la distanza ma, a quel punto, la curiosità giocò ad armi pari con la paura e toccò alla prudenza moderare le azioni.

La torcia scattò nervosamente da una parte all’altra e il fascio di luce si strinse sul terreno per poi allargarsi fra i robusti tronchi degli alberi. In uno spazio tanto vasto non scorse altro che ombre e tenebre, e gli parve la cosa più logica; era come cercare un ago in un pagliaio.

Quando decise di rinunciare e tornare all’automobile, si accorse di aver perso l’orientamento e smarrito la strada. Non si diede per vinto; nonostante il buio, conosceva la zona come le sue tasche ed era certo che di lì a poco avrebbe trovato un riferimento.

Le circostanze, però, non gli concessero tempo.

Un nuovo fruscio crebbe alle sue spalle e stavolta intuì la distanza senza possibilità di errore; chiunque, o qualunque cosa fosse, si trovava proprio dietro di lui.

Lottò per rimanere lucido ma fu presto travolto da un’onda emotiva che scatenò un’allucinazione tattile, da cui prese forma un essere deforme pronto a trapassargli il cuore con una lama affilata o a fracassargli il cranio con un masso. Il cuore iniziò a martellare e non riuscì più a contenerlo; sembrava sul punto di saltargli fuori dal petto e sentì cedere le gambe.

L’incubo che lo teneva prigioniero era il parto di una mente in vena di un macabro scherzo o correva realmente un pericolo mortale? Le dita della mano che stringevano la torcia allentarono la presa e l’unico strumento in grado di svelare il mistero scivolò in terra, andando a illuminare l’inutilità del manto boschivo.

Preda di un cortocircuito sensoriale, la sua psiche resuscitò la figura di Piergiorgio Savoldelli e, prima di perdere i sensi, ebbe la sensazione di trovarsela stagliata di fronte, con la schiena ritta e la testa alta, in un portamento dignitoso e risoluto che stonava con il contesto tetro e selvaggio che lo circondava.

Il movimento brusco gli aveva fatto volare via gli occhiali; le immagini sfocate non permettevano di discernere i lineamenti dell’individuo che aveva di fronte, né capire come vestisse o quale fosse il colore degli occhi e dei capelli.

Quando crollò in terra privo di sensi, nello stato alterato di coscienza, gli apparve il sorriso enigmatico che Piergiorgio sfoderava in una fotografia pubblicata dai giornali anni prima, mentre i suoni notturni della foresta sfumavano e cambiavano i loro connotati come un vecchio dormiente che smorza, in un russare indifferente, il canto vigoroso della vita.