I morti non sbagliano
La terza indagine di Guerino Manforte


Gli abitanti di Roccabuona la chiamavano semplicemente Matilde; una scelta che, oltre a nascondere una genuina benevolenza, evitava, sovente, di inciampare sul suo cognome, Pretomelchenko.

Sin dal lontano giorno in cui aveva deciso di lasciare il suo paese natale dal nome altrettanto impronunciabile, Peršotravens'k, per trasferirsi a Roccabuona e sposare un uomo del posto, Matilde aveva instaurato con molti concittadini un ottimo rapporto, imparando il dialetto locale e dispensando enormi teglie di insalata russa, la cui ricetta originale, amava puntualizzare, risaliva ai primi del '700 per opera di tale Roman Prioshenko, pittore di talento e cuoco raffinato di Leviv.

La facilità con cui Matilde si era adattata a Roccabuona dipendeva, in buona parte, da uno stile di vita che le ricordava quello del paese natio e dal clima freddo e nevoso che, per quanto meno rigido di quello che aveva lasciato in Ucraina, le era di conforto nei momenti in cui la nostalgia tornava a farle visita.

Nel tempo si era specializzata come domestica ed era talmente ricercata che occorreva dotarsi di pazienza se si voleva trovare posto nella sua fitta agenda di lavoro. Persino la ditta delle pulizie che aveva in appalto i servizi per la banca locale le aveva offerto un posto fisso, ma Matilde, dal cognome impronunciabile, aveva gentilmente declinato, preferendo il calore con cui veniva accolta nelle case ai freddi pavimenti in marmo degli uffici.

Come ogni mattina, anche quel giovedì 12 dicembre Matilde si era alzata alle 5:30; dopo aver bevuto del tè corretto con un'idea di vodka, preparato la colazione per il marito e sbrigato le faccende domestiche, era uscita indossando gli abiti da lavoro e un vecchio colbacco di pelliccia con lunghi paraorecchie, confezionato a mano dalla nonna materna.

Prima di lasciare il centro abitato e imboccare un sentiero nel bosco che incrociava la provinciale, con i piedi che affondavano nella neve fresca fin sopra le caviglie, Matilde controllò il termometro posto sotto la croce verde della farmacia del dottor Fontanella: alle ore 8:22 di quel giovedì 12 dicembre, il tabellone luminoso segnava cinque gradi sotto lo zero.

I coniugi Fioravanti, presso i quali prestava servizio ormai da otto anni, le avevano consegnato le chiavi dell’abitazione da utilizzare anche in estate, quando la coppia si spostava a Bologna e la casa rimaneva disabitata.

Canticchiando motivetti ucraini, Matilde percorse il tratto della provinciale godendosi i silenzi del paesaggio invernale, interrotti, solo di tanto in tanto, dal canto di un uccello o dal rumore ovattato di pneumatici che percorrevano quel tratto imbiancato. Il cielo era terso e le previsioni locali avevano parlato di un inverno freddo, in controtendenza rispetto ad altre zone di alta montagna, dove il cambiamento climatico minacciava gli introiti di alcune tra le più rinomate località sciistiche del paese.

Giunta nei pressi della villetta, attraversò la strada ed entrò dal cancelletto aperto; la fitta nevicata notturna aveva creato un manto compatto e trasformato la tenuta dei Fioravanti nella location ideale per un'opera dei fratelli Grimm.

Frugò nella borsa in cerca delle chiavi e si diresse nel piccolo capanno dove conservava i prodotti per le pulizie; prese un secchio di plastica e lo riempì con il necessario, afferrò uno scopettone e fece il percorso inverso, poi salì i tre gradini del portico e si fermò davanti all'ingresso. Si accorse che dalla toppa penzolava un portachiavi a forma di croce, che ricordò appartenere alla signora Elsa. Provò a suonare il campanello, ma non rispose nessuno, così aprì utilizzando la chiave già inserita; pensò che, rientrando in casa, la signora Fioravanti doveva averle semplicemente dimenticate e in quel momento stesse ancora dormendo.

All'interno le luci erano spente. Matilde poggiò in terra gli accessori per le pulizie, allungò un braccio alla ricerca dell'interruttore e premette il pulsante centrale; la luce invase il salone mentre la cucina americana e l'angolo TV, furono illuminati dai faretti a led disposti su un controsoffitto dal design retrò. Stava per avvisare di essere arrivata quando il sorriso si tramutò in una smorfia di terrore, gli occhi si spalancarono e le urla si bloccarono in gola; il tavolo in mogano intarsiato, i due divanetti color ambra pastello e il lungo sofà a forma di L, sembravano essere stati volutamente disposti a scacchiera per coprire i due corpi che giacevano sul pavimento, apparentemente privi di vita. Le mani di Matilde iniziarono a tremare; i muscoli facciali e del corpo, si irrigidirono come si fossero atrofizzati di colpo. Trascorse immobile alcuni interminabili secondi prima di riuscire a compiere qualche passo all'indietro, richiudere la porta e trovare un sostegno dove reggersi per non collassare in mezzo alla neve. Con il respiro affannato e il viso latteo, Matilde riprese pian piano il controllo, ricordò di avere con sé il cellulare e fece l'unica cosa che sapeva fare: tenere premuto a lungo il tasto corrispondente al numero 1.